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8 MARZO Il Corpo delle donne

Claudio Verna intervista Giulio Turcato Febbraio 1986

Oltre lo spettro’
– Claudio Verna intervista Giulio Turcato
In queste settimane la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma ti dedica una grande mostra antologica. Cosa significa per te: la vedi come una consacrazione, come un debito finalmente pagato, o è una mostra come le altre?
Beh, come una consacrazione spero proprio di no… E’ un riassunto di tutto quello che ho fatto, una grande prospettiva immaginifica di quello che mí è passato per la mente in questi anni. Naturalmente sono contento, anche se non è la prima antologica che faccio; l’ultima l’ho tenuta al museo di Monaco, in Germania.La Galleria di Roma è l’unico museo «nazionale» italiano. Non ti sembra un po’ assurdo che non si riesca a fare mostre-scambio con altri musei europei, e magari americani? Perché mi sembra che la tua mostra non verrà esportata.
Questo dipende da una sorta di incomunicazione che c’è tra le diverse situazioni anche burocratiche. Non c’è una base su cui operare in modo tranquillizzante e tempestivo. Ci vorrebbe gente che se ne occupasse.Non pensi dipenda anche dal fatto che la lira è più debole rispetto al dollaro?
No, perché lo sponsor si trova sempre, e industriali e mercanti i soldi li hanno.
Allora è questione di uomini, di idee, di teste.
Io credo sia proprio questione di una critica che non si muove a livello internazionale.In Italia, e in generale in Europa, la vera arte è sempre considerata quella del passato, mentre gli americani si identificano con l’arte italiana contemporanea. A chi dai ragione?
Io penso che siano nel giusto gli americani. Noi non abbiamo né l’organizzazione né la voglia di mandare
le mostre di qua e di là. Questo è il punto.Fino a una decina d’anni fa, la parola «avanguardia» era tenuta in grande considerazione, adesso sembra non abbia più valore. Perché?
C’é la Transavanguardia, che però è stato un ritorno all’indietro, verso il novecentismo, anche se alcuni artisti sono bravi.

Tu appartieni alla generazione degli «artisti del ’48», che nell’immediato dopoguerra cercò di sprovincializzare l’arte italiana dopo la parentesi fascista. Cosa è rimasto di quelle polemiche, che i giovani di adesso stentano a capire o almeno non conoscono bene?
Intanto è rimasto che veramente siamo in pochi, molti sono scomparsi. Ma soprattutto quella situazione così particolare, sociale, fatta di incontri tra noi, non esiste più. Anzi, è durata appena qualche anno, poi ognuno si è ritirato in una specie di torre eburnea. Io abito nel centro di Roma: prima incontravo della gente, adesso non vedo più nessuno. Anche tra Roma e Milano i rapporti sono strani: quando ci s’incontra, è come se ci si vedesse per la prima volta, pur conoscendoci. S’inciampa sempre in qualche cosa che fa scivolare.

Quello che dovrebbe essere normale, è un’eccezione…
A Milano, per esempio, c’era il bar Giamaica in cui una volta ci s’incontrava tutti. Adesso ci sono solo turisti!

Si ripete continuamente che la storia dell’arte procede per cicli, in cui si alter-nano le fughe in avanti e i ritorni all’or-dine, la pittura calda e la pittura fredda, l’astrazione e la figurazione. Tu che hai sempre attraversato queste fasi con la più grande libertà, credi sia solo una questione di etichette oppure c’è qualcosa di inevitabile in questi movimenti ciclici?
Io credo sia nel subcosciente di una certa cultura italiana il guardare sempre un po’ all’indietro, il ritorno all’ordine, a qualcosa di crepuscolare. Avviene anche nella letteratura: ha avuto degli sbalzi, ma poi si è tornati, in fondo, a una scrittura liscia e lenta, senza curiosità e fantasia.

Tu parli della situazione italiana, però questo succede anche altrove…
E’ vero, succede anche negli altri paesi. Ma io ricordo che durante il fascismo andavo con mio padre alla Biennale di Venezia e c’era solo una piccola ala dedicata ai futuristi, perché Marinetti in fondo era un grande organizzatore, mentre tutto il resto era retorica, apoteosi del regime. Adesso questi quadri sono scomparsi. Qualche volta ne salta fuori uno con Mussolini a cavallo, ma sembra proprio un tempo passato.

Secondo te, un artista risponde solo del suo lavoro, oppure deve impegnarsi anche come intellettuale nella difesa delle proprie idee, scrivendo, polemizzando se necessario, insomma intervenendo attivamente nella scena artistica?
Si dovrebbe anche intervenire. Però allora è necessario un concettualismo diciamo attivo, come c’è stato con il gruppo di «Forma 1» e con altre situazioni tipo «Fronte nuovo delle arti». Altrimenti la cosa cade sempre nel-l’individualismo. Oggi, per esempio, siamo diventati tutti dei solitari, non c’è niente da fare. E’ un male che fa parte un po’ dell’indole degli intellettuali italiani: si nascondono, non si fanno sentire, ognuno si adagia nella sua cuccia.

Dovendo parlare dei tuoi rapporti con la critica, come li definiresti? Secondo te, la critica deve essere creativa, come dice Bonito Oliva, oppure deve intervenire solo per mediare il rapporto con il pubblico?
La critica è nata per mettere in rapporto gli artisti col pubblico e con gli altri intellettuali. Deve sviluppare questo rapporto col dialogo, ma adesso tutto questo si è sfaldato e non c’è più contatto. Bonito Oliva è il prototipo del critico-manager e forse è l’unico che resta. Non mi pare ci siano molti critici di questo tipo. Ma anche lui si è un po’ rallentato, mi pare. Non c’è più una vibrazione.

C’è mai stato un critico il quale abbia scritto qualcosa sul tuo lavoro che ti ha sorpreso, rivelando qualcosa di cui tu non avevi consapevolezza?
Venturi, e anche Argan, in un certo senso, e poi il tedesco Messer, che ha scritto un testo per questa mia mostra di Roma.

Negli ultimi anni, qualche critico ti ha indicato come un antecedente rispetto a esperienze fatte da altri giovani pittori, come ad esempio i rappresentanti della Transavanguardia. Tutto questo ti ha fatto piacere o ti sei sentito un po’ strumentalizzato?
Beh, sai, la strumentalizzazione a volte può anche far piacere, secondo com’è condotta. E poi, per un artista,
sentirsi abbandonato solo a se stesso non è una bella cosa…

Hai rapporti personali con questi giovani? Voglio dire: frequenti i loro studi, ti vengono a trovare, oppure li incontri solo alle mostre?
No, ci incontriamo solo alle mostre. Non c’è più rapporto. Il fulcro, una volta, era via Margutta, via del Babuino, piazza del Popolo. Adesso non più. Se ci incontriamo, è all’inaugurazione di una mostra: ci sono i saluti, qualche commento, ma poi… è come una palla che va contro il muro, che torna indietro; ma se la palla casca a terra, non succede proprio niente.

L’ultima corrente di cui si parla in Italia è quella dei cosiddetti «anacronisti». Trovi qualche ragione in quello che fanno o li consideri solo come un momento di chiusura rispetto ai grandi temi dell’avanguardia?
Io trovo che è una cultura priva di energia, una pittura accademica. Ma allora è meglio De Chirico. Ho visto recentemente una sua mostra, e per lo meno c’è un senso, un commento nel tirar fuori il tempietto greco; c’è uno spirito, c’è qualcosa. In questi altri mi pare ci sia solo dell’accademia. Negano non solo l’avanguardia, ma la pittura in sé. Fanno del chiaroscuro, non c’è invenzione. Si può anche fare pittura guardando indietro, ma allora bisogna avere un certo spirito.

Tu hai fatto oggetti, sculture, hai usato materiali molto diversi, ma sostanzialmente hai sempre dipinto. Quando la pittura, alla fine degli anni ’60, con l’av-ento dell’Arte povera e poi di quella concettuale, venne considerata antiquariato, come reagisti, cosa pensavi? E comunque, c’è qualche artista concettuale o dell’Arte povera che ti abbia interessato?
Veramente non mi ha sollecitato proprio nessuno, perché mi pare una situazione un po’ scolastica, di ritiro per pensare. Per me solo l’opera fa vedere l’idea che c’è dietro l’opera. Le loro elucubrazioni non m’interessano.

Ripercorriamo un po’ la tua storia di pittore. Tu sei nato a Mantova nel ’12, hai studiato a Venezia, poi sei stato a Milano, nel ’43 sei approdato a Roma. Prima di Roma, quale città ti ha segnato di più come pittore?
Penso Venezia… No, Venezia è una città pigra. E’ interessante perché ci sono le Biennali, ma ormai è una città deserta. Quand’ero lì avevo sempre voglia di scappare, capisci?

Quando sei andato a Milano, nel ’37, che clima hai trovato? Quali sono stati i tuoi amici, con chi ti incontravi?
A Milano c’era ancora un clima novecentista e io ho fatto anche una certa fame… Poi incontrai l’architetto Muzio che mi fece fare dei mosaici. Sì, c’era un certo fermento, ma era fragile.

Facesti a tempo a conoscere gli astrattisti che si raggruppavano attorno alla galleria del Milione?
No, erano già un po’ passati e poi facevano quadri geometrici… Si andava alle loro mostre, ma erano rintanati, nella città non si sentivano.

Nel ’43 arrivi a Roma. Come ti sembrò la città, perché decidesti di fermartici?
Sono venuto a Roma per il clima. Mi ero ammalato, quindi il clima di Milano non mi conveniva, quello di Venezia neanche; e poi la capitale mi è sempre piaciuta. Inoltre nel dopoguerra a Roma si era creata una situazione antinovecentista, c’era la voglia di uscire da certi schemi. Anche se questo viene negato, era proprio così.

Quali furono i problemi più gravi che tu e i tuoi amici doveste affrontare? Parlami di quegli anni.
C’era la polemica artistica e c’erano pure le ristrettezze economiche, ma abbiamo trovato anche qualche appassionato che ha cominciato a comprare i nostri quadri. Poi, ci arrangiavamo con qualche decorazione. Parliamoci chiaro: era la «bohème», che tra gli artisti esiste da sempre.

Nonostante questo tu, se non sbaglio, fosti tra i primi ad andare all’estero per vedere l’arte moderna direttamente alle sue fonti, alle sue origini. Con chi viaggiavi?
Con Consagra sono andato prima di tutto a Parigi, dove abbiamo avuto contatti con Magnelli, Pignon, Manessier e molti altri. La sorpresa più grossa fu senz’altro la scoperta di Kandinsky al Museo d’arte moderna. Kandinsky ha una visione originale, costruisce un altro mondo. Poi, non è geometrico ed è un grande colorista.

Non conoscevi per niente Kandinsky prima di andare a Parigi?
Avevo visto delle foto e qualcosa anche alla Biennale di Venezia prima della guerra, ma non ero ancora edotto. Poi, sono stato anche in Germania e in Inghilterra, dove c’era una specie di realismo rimaneggiato, abbastanza curioso. A Parigi sono tornato più volte e vi ho anche soggiornato con una borsa di studio. Ero affamato di vede-re, e poi a Parigi ci sono delle passeggiate molto interessanti.

Arriviamo a «Forma 1». Come nacque questo gruppo? Voglio dire, ci fu qualcuno che fece da intermediario, oppure tutto avvenne spontaneamente?
«Forma i» è nato in via Margutta, dove io e Consagra avevamo lo studio vicino. Poi si sono aggiunti Dorazio, Perilli e tutti gli altri. Eravamo dei volontari, decisi a uscire da una situazione novecentista, a cambiare le cose.

Sulla base di quali letture scriveste il manifesto di «Forma 1», quali incontri aveste per mettere a punto le idee?
Tutto nacque dai viaggi a Parigi, dai quadri che vedemmo. Avemmo subito sentore di qualcosa che si muoveva in modo diverso che da noi, di una pittura nuova e più moderna.

Voi in quel manifesto vi definivate formalisti e marxisti. Ora, del Formalismo non si sapeva molto in Italia. Non c’entra un po’ Ripellino con le sue conoscenze?
Beh, Ripellino faceva un po’ il cantautore, però la situazione è partita proprio da noi. Volevamo cambiare. Il manifesto l’abbiamo scritto noi.

Una domanda inevitabile su Guttuso: una sola, ma te la devo fare. Qual’è stata la sua influenza, quali i suoi meriti e quali le sue colpe, naturalmente dal tuo punto di vista? Perché Guttuso è stato importante in quegli anni, nel bene e nel male…
Guttuso faceva una specie di espressionismo in quegli anni. Era molto cordiale, molto socievole, era vivace nel parlare, aveva idee che sembravano abbastanza moderne. Però poi c’è stato questo suo ritiro…

Fino a un certo punto è stato un vostro interlocutore…
Si, è stato un interlocutore, però lui era più famoso, aveva più successo di noi, e inoltre aveva avuto un passato antifascista. Dopo è successo il patatrac. Ci siamo divisi, ci hanno attaccato, il Partito comunista in testa.

Tu avevi la tessera del Partito comunista? Sì, durante la Liberazione sono stato nel Partito comunista. Poi, le cose non hanno più combaciato.

Quando si ruppero i rapporti? I famosi attacchi di Togliatti furono la goccia che fece traboccare il vaso, oppure giunsero inaspettati?
Inaspettati no, perché ci aspettavamo di tutto. Però abbiamo sentito la scollatura come un’eco di ritorno. Noi avevamo un altro punto di vista, più moderno insomma: volevamo uscire a tutti i costi dal novecentismo, mentre loro avevano una visione veristica, più o meno. E questo è stato il loro sbaglio. Noi volevamo essere liberi. La rivoluzione poi pare non sia venuta, se mi guardo in giro non la vedo…

Da allora ti sei più avvicinato ad altri partiti, oppure hai conservato una certa diffidenza?
No, perché penso che la politica dovrebbe aiutare gli artisti e non imporre le cose. Qui siamo subito in una re-pubblica diciamo spartana, invece che ad Atene, capisci? Invece in una vita, quella borghese, già abbastanza regolata, bisogna almeno guardare quello che succede al di là di questa condizione.

Oggi il Partito comunista si dichiara molto aperto nei confronti dell’arte. Non credi a questo atteggiamento?
Io per la verità non mi sono accorto di questo cambiamento. Di fatto il Partito comunista non ha svolto un’autocritica in questo senso. Continua una sua linea con i vari Zigaina, Guttuso, Pizzinato.

E della tradizione libertaria del socialismo cosa pensi?
Mah, vedi, si deve sentire, si deve organizzare, tirare fuori i soldi anche: io non vedo niente di tutto questo. Se mi affaccio alla finestra non vedo nessuno! In fondo nel dopoguerra, nonostante i ritorni all’ordine, le cose sono andate avanti liberamente. Ecco, bisogna stare dalla parte dove si può scegliere. Oggi il mondo dell’arte si è «imbisuito» in una situazione programmata.

Come si svolge la tua giornata di lavoro? Sei metodico, confusionario?
Si è metodici quando si è nelle idee. Il quadro non salta fuori così, all’improvviso. La verità sta in questo: per poter essere veloci, come è giusto, ci vuole prima una preparazione, anche tecnica. Poi, il quadro deve essere fresco, questo è il punto. Il momento felice viene lavorando. Ma questo non è poi un gran segreto…

Ti capita di passare lunghi periodi senza dipingere?
No, questo no. Magari ci sono storie, grane, ma anche se non dipingo faccio magari disegni, «gouaches». Distrazioni non ce ne sono molte, la vita è diventata un po’ piatta… ma forse è meglio così.

Tu potresti andare a vivere in campagna?
No, io sono per stare nel centro della città. Ho vissuto anche in periferia, ma non mi piace. Puoi anche guardare la campagna, ma oggi anche quella è burocratizzata. I boschi dove stanno più? L’arte nasce dall’incontro delle idee, e questo è possibile solo in città. Anche nel Rinascimento c’era un colloquio nelle grandi città di allora, a Firenze, a Venezia. In campagna mi verrebbe voglia di tagliare gli alberi, di bruciare qualche pagliaio… è così! Per fare l’arte ci vuole un programma mentale, basta che non sia noioso. Tu puoi girare tutta l’Africa restando in Europa, capisci? Bisogna inventarla, la bellezza, è tutta una questione interiore. L’artista è un astronauta che lavora con l’immaginazione, con illuminazioni solitarie.

In genere, ti convince di più il giudizio di un mercante o di un critico?
Ci sono dei mercanti che hanno veramente un occhio molto acuto, ma sono rari: in genere, sono sedotti dai denari. Le tentazioni per chi si occupa d’arte sono tante… I critici, per esempio, spesso cercano nel quadro delle similitudini con le loro idee. Altre volte, c’entra la politica. Raramente artisti e politici creano insieme una civiltà. E’ successo in Egitto dove le piramidi, anche se inutili, sono perfette, sono una forma assoluta, sono un pensiero anche tecnologico straordinario. Invece il tempio greco, in fondo, rompe un po’ le scatole, come la chiesa: sono tutte cose bellissime, per carità, ma un po’ retoriche, insomma.

Oggi, Roma è la città giusta per un giovane artista, o gli consiglieresti di andare altrove, magari a New York?
Secondo me un giovane deve girare, deve vedere le differenze. A New York ti puoi anche perdere. Per me vivere a Roma, come ho già detto, è anche una questione di clima. Io sono stato anche in Cina, dove predomina la massa… che è un po’ disastrata. Mi ricordo di essere stato, con altri italiani, in una piazza enorme dove c’era stato un comizio. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Sembrava che nessuno mi guardasse, invece mi guardavano tutti, senza voltare la testa. Ho provato una strana sensazione, come se improvvisamente mi potessero far scomparire. Ho capito che ero veramente solo, veramente diverso, come erano diversi loro: e questa sensazione me la porto ancora dentro.

Parliamo del tuo lavoro. Qual è la linea dell’arte italiana alla quale ti sei rifatto, quali i maestri che ti sei scelto quando hai cominciato?
Beh, i Fauves, con Matisse in testa, e, per quanto riguarda l’Italia, i futuristi, che poi sono stati traditi. Un altro impatto l’ebbi con il Giudizio Universale di Michelangelo: è veramente qualcosa che va oltre l’umano, una specie di piramide, qualcosa di assoluto. E poi, tutto il Rinascimento italiano.

Della Metafisica, cosa pensi?
Beh, De Chirico, che conosco come le mie tasche, è un grande pittore che non è stato ancora capito. Tuttavia, effettivamente, è sempre un po’ classicheggiante, ma in una situazione moderna. Non è un rompiscatole come Poussin, per capirci, perché è vario, e questo i francesi non lo possono comprendere.

Della Scuola romana, di Mafai?
Mafai era un tormentato, perché aveva un impeto che a un certo momento si arrestava. Non ha mai fatto un grande quadro; era un bel pittore, ma voleva fare Goya e non ne aveva il temperamento. Oscillava tra l’impressionismo e la pittura tonale. Scipione sbaglia di più, ma sbaglia in modo giusto. Vedi, un pittore deve sbattere in faccia alla gente quello che la gente non vede, altrimenti non succede niente! De Chirico ti sbatte in faccia qualcosa della Grecia che ha capito solo lui!

La tue idea del movimento di «Corrente»?
«Corrente» è un falso. Hanno cercato di uscire dal Novecento, ma hanno fatto una pittura all’alkermes! Niente a che vedere con De Chirico.

Il Surrealismo ha avuto importanza nello sviluppo del tuo lavoro?
Beh, sì. E’ una situazione inventata, intellettualistica, che va oltre il visivo, quindi è importante.

Quanto deve il tuo colore alla tradizione dell’arte veneziana?
Io veramente devo molto a Matisse, anche se sono assolutamente diverso, e un po’ a Modigliani. Con Venezia, anche se sono veneto per gli studi, non ho molto a che fare. Matisse è vera-mente un grande maestro, che non si può neanche copiare perché è troppo libero. Morandi invece non mi ha mai convinto, come per la verità neanche Magnelli, troppo ligio a una matematica di forme che trovo sbagliata. L’occhio non vede tutto, lo deve far intuire però. E’ tutto qui. L’astrazione significa fare dell’arte senza bisogno della rappresentazione naturalistica della realtà. Ma il quadro è comunque l’identificazione di un’immagine.

E allora, quali sono i tuoi temi, i tuoi soggetti, o se vuoi i problemi che affronti nella tua pittura?
Il fatto è questo, tu hai toccato un punto giusto: l’astrazione non può essere uno schema, ma qualcosa di un po’ sognato, non ligio a una situazione accademica. Il mio pallino sarebbe proprio di inventare qualcosa che non si è mai visto. Ancora non ci sono riuscito, però. Con la scoperta dell’America si è visto per la prima volta che la Terra era rotonda: invece era meglio quand’era piatta… E comunque intorno alla Terra c’è il buio, e questo m’interessa. La logica non spiega tutto. Se c’è il mondo del Sole, c’è anche il mondo del nero. Noi ci assoggettiamo all’occhio che vede con la luce, ma c’è anche un altro mondo che non conosciamo e che è infinito. Perché non andiamo a vedere che c’è al di là, dietro l’altra faccia della Luna, fuori dall’atmosfera? Io non so mica se noi vediamo giusto! Per esempio, ho letto che gli animali vedono a due colori, in bianco e nero. Solo noi vediamo colorato. Chi ci dice che abbiamo ragione noi?

Tu hai fatto dei quadri cercando colori che vadano oltre lo spettro…
… ma perché voglio cercare qualcosa oltre gli schemi conosciuti della luce, senza essere schiavo dell’occhio. Non voglio farci una filosofia sopra, ma neanche voglio essere schiavo dei miti. Il nostro modo di vedere e di immaginare è un po’ campato in aria, ma una realtà universale c’è e noi non la conosciamo, questo è il punto.

Il tuo segno è stato spesso paragonato a una scrittura, che conserva sempre una sua autonomia e una sua energia…
Davanti a me c’è una lavagna, cioè la tela bianca o colorata: io mi astengo da un ragionamento, il segno lo faccio affidandomi al subcosciente. L’automatismo surrealista mi ha interessato, ma deve essere sempre personale, diverso anche dalla mia testa, naturale come un animale quando mette una zampa davanti e una dietro, ma senza saperlo. Anch’io vorrei fare la stessa cosa, ma purtroppo siamo prigionieri della
ragione e sappiamo sempre quello che facciamo perché abbiamo un’educazione, una cultura. Invece bisognerebbe dipingere in «trance» assoluta: sarebbe fantastico!

Tu non hai mai amato la geometria e ora credo di capire perché…
Ma, sai, la geometria è una costrizione mentale, non m’interessa.

Il tuo lavoro si svolge sulle due dimensioni, è una pittura di superficie. Qual è il tuo rapporto con la pittura americana, con i maestri dell’ Action Painting?
Vedi, Pollock è ancora legato all’espressionismo ma il suo gesto è anche «contro», contro la società: è un gesto di critica e anche di liberazione. Insomma, la pittura americana mi interessa, ma ormai i problemi sono altri: noi abbiamo davanti una situazione culturale abitudinaria, da cui dobbiamo uscire.

Allora dimmi qual’è, nei tuoi quadri, il legame tra il rigore e la libertà, tra la fantasia anche più sfrenata e la cultura.
Ti faccio un esempio: la linea diritta è un rigore che conchiude. Ecco, bisognerebbe trovare una linea che non fosse di questo tipo. Insomma, bisognerebbe inventare un altro ordine, non formale, non conformista. E questo vale anche per il colore, per la politica, per tutto e per tutti. Guardando i miei quadri, quadri che forse ancora non ho fatto, uno dovrebbe vedere una cosa diversa, al di fuori di quello che già conosce.

Un’ultima domanda, alla quale in fondo hai già risposto: cosa significa per te la pittura, come la vivi?
La vivo come un bisogno, non potrei fare nessun altro mestiere. Per l’uomo delle caverne il segno era liberatorio, il suo subcosciente si esprimeva liberamente; il segno di noi moderni è troppo culturale. Io vorrei tornare ad essere libero, senza rimanere infognato in nessuna situazione.

Claudio Verna intervista Giulio Turcato in Mondo Operaio, Rivista mensile del Partito Socialista Italiano, febbraio 1986, pp. 140 – 144

B.Bassiri